A Travellerspoint blog

Bangkok reloaded

Il mercato di Chaktuchak e il conforto del Buddhismo

overcast 36 °C

Il mercato di Chatuchak si sveglia presto, rianimando Bangkok lentamente. Al mio arrivo, le bancarelle sono ancora semi vuote e le strade pressoché deserte. Chatuchak è famoso perché qui si vende di tutto. Diviso ordinatamente per settori, con prezzi variabili e rigorosamente da contrattare, è un mercato che alterna stalli coperti e opportunamente rinfrescati da potenti soffi di aria condizionata, a carrette e bracieri ambulanti. La truffa è sempre dietro l'angolo, così come la sete e la stanchezza.

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A metà mattinata, mentre i thailandesi si accalcano alle bancarelle del cibo, mi rinchiudo insieme ai locali per un massaggio rinvigorente.

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L'odore dei gamberetti secchi mi insegue e l'afa mi opprime, inesorabile. Eppure, trovo questo luogo affascinante e familiare. Mi ricorda i bazar colorati di Shiraz, carichi di stoffe e spezie del lontano Oriente. Ed eccolo qui, il lontano Oriente.
Nel transitare mentale in terra persiana, mi sento di nuovo a casa.

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Mi dirigo verso Chinatown, alla ricerca del tempio buddhista di Wat Tramit, col suo Buddha dorato, alto 3 metri. Mi ritrovo di nuovo a pregare e a ricordare. Ricordo quello che in un anno è stato il mio cambiamento più difficile, la sfida vinta -a suo modo- contro la morte, e tutte le volte in cui le persone non hanno creduto in me.

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Esco dal tempio ed è quasi il tramonto. Ceno con una zuppa di cocco e lime e un'insalata di papaya e gamberi.
Il vicolo verso l'hotel è buio e deserto. Sento le risate dei turisti nei ristoranti e il profumo del curry. L'odore di fogna ormai è un ricordo lontano, un sottofondo muto che non disturba più.
Forse mi sto abituando agli odori. Forse, finalmente, anche qui, sono a casa.

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Posted by Marina_Calypso 08:56 Archived in Thailand Tagged temple buddhism bangkok chatuchak wattramit Comments (0)

La città dai tesori che abbelliscono l'oceano

Bangkok

semi-overcast 36 °C

Il caldo di Bangkok è qualcosa di esasperante e insopportabile. Ti segue nei suoi angoli poveri e sporchi, inatteso dietro l'angolo, oltre le porte scorrevoli dei locali climatizzati e della metro, e ti si appiccica addosso ostinato, come a ricordarti che il bello, qui, è finzione, e l'opulenza vera non è quella delle vetrine illuminate giorno e notte, ma quella dei suoi Buddha dorati, rinchiusi nei templi, lontani dal l'odore delle fogne e dal caos dei tuk-tuk.

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Il bello di Bangkok è nascosto, e per trovarlo, bisogna avere la mente libera, giocarci a nascondino, stanarla con pazienza. La mia mente però non è ancora libera come un tempo e fatica a sfidare la città nei labirinti di Chiantown, tra storpi e mendicanti, venditori ambulanti e cibo ricoperto di mosche. Mi arrendo nel silenzio di un angolo di Wat Pho, sotto un albero di frangipane rosa, con un micio ai piedi in cerca disperata di coccole.

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Sudata, stanca, disorientata, mi incammino silenziosa tra i tempi. I turisti sono in coda per la foto di rito con il Buddha disteso, una statua alta più di 15 metri, vera attrazione della città. Cerco ancora, non so cosa, forse un po' di atmosfera. Trovo la scuola tradizionale di massaggio thailandese e mi rinchiudo dentro per ristorare i piedi stanchi. Fuori inizia a piovere e l'aria si riempie di odore di polvere. Verso l'ora del tramonto, nel tempio non c'è già più nessuno. I turisti sono usciti, la biglietteria è ormai chiusa. I monaci prendono posto e cominciano a pregare. Mi tolgo le scarpe e mi siedo accanto a loro. Sento finalmente una grande pace.

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All'uscita, le strade sono ormai vuote e velate del dorato della sera. Le bancarelle continuano a grigliate calmari e gamberoni mentre i tuk tuk cercano di scucirti gli ultimi baht della giornata. Proseguo a piedi fino al molo e attendo il battello che mi riporti a Sathorn. Sento le assi di legno bagnate smuoversi con le onde. Mi chiedo se sia la stanchezza del viaggio e se reggerò fino al rientro in hotel.

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Il sole cala sul tempio di Wat Arun, ricoperto dalle impalcature del restauro.
Non vedrò le stelle. Il cielo si sta di nuovo oscurando.

Posted by Marina_Calypso 02:21 Archived in Thailand Tagged bangkok Comments (0)

Istanbul

4 °C

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Mi manca.
Anche il solo pensiero che, da qualche parte, vi sia un luogo di pietre stellate, in cui una donna corpulenta riversa bolle di sapone sui corpi sdraiati tra i vapori, sul marmo rovente. Corpi graffiati, stanchi, desiderosi di mani che curino e ripuliscano la pelle e l'anima, con minuziosa dovizia, dall'indifferenza di mesi senza amore;
Che esista un luogo chiamato Eminönü; e basterebbe che un uomo mi sussurrasse all'orecchio quel nome -"Incontriamoci, se vuoi, al tramonto ad Eminönü"- per farmi innamorare, anche se non ci sono più i gabbiani in cielo, anche se il colore degli occhi ha già preso il riverbero delle barche riflesse nel buio del Bosforo, anche se la sera si è popolata di estranei che passano veloci, urtandoci con i loro ombrelli. Ma le sirene dei traghetti si sentono ancora, e le onde anche quelle le sento; se chiudo gli occhi, sento anche il profumo del mare, dei taxi arrabbiati, del cumino pungente, delle mani che avvolgono calde.
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Mi manca.
Che vi sia cibo caldo per strada: pane al sesamo, pannocchie arrostite, castagne, panini col pesce fritto agli angoli di un marciapiede, cozze ripiene di riso al bazar, un caffè, una tazza di tè per favore, con lo zucchero, due zollette, lo vorrei dolce, molto dolce, dolcissimo per cortesia. Così basta. Grazie. No, no, no. La dolcezza non basta mai.
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Che via sia olio di rose che brucia nelle chiese armene. E incenso di ambra nelle moschee. E due uomini bruciano cassette di legno al mercato del pesce di Galata, sotto la neve, per scaldarsi. E qualcosa brucia dentro. Scoppietta, riscalda la notte quando il muezzin, i gabbiani, i bambini che giocano per strada tacciono tutti e le radio che trasmettono musica pop sono già tutte spente, e sono rimasta soltanto io, sulla collina Sultanahmet sotto la neve e vado canticchiando stonata le sole parole che ricordo di quella canzone: adımı kalbine yaz beni unutma.
Scrivi il mio nome sul tuo cuore e non dimenticarmi.
Istanbul ❤️
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Posted by Marina_Calypso 10:29 Archived in Turkey Tagged istanbul Comments (1)

Al-Quds - Jerusalem (tra frontiere e resurrezioni)

Sulla strada per Gerusalemme

sunny 30 °C

La spina dorsale di asfalto lungo il deserto del Negev ci appare ancora più sottile quando una moltitudine di camion porta-carro-armati ci viene incontro: un gregge di ferro, aggressivo, di un verde appassito come le foglie degli iris, simbolo della Giordania. Si dirigono verso sud, in silenzio. La stagione dei fiori è terminata, quella degli scontri sembra non avere mai fine. La strada per Ma'an è bloccata dall'esercito giordano, in lotta contro i beduini. Un giovane è morto, i feriti sono diversi e il governo del Paese che ci ospita teme per i turisti. Raggiungere Allenby e sconfinare in Palestina sembra più complicato del previsto. Risaliamo in solitario la strada lungo il Mar Morto. Viaggiamo stipati verso Gerusalemme, Francesco, Marco ed io, circondati da dune perfette e sguardi di cammelli assopiti.

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Dopo circa un'ora di cammino, il paesaggio comincia a cambiare. Le torri militari di avvistamento si fanno più rade e, in lontananza, ci appare il Mar Morto, biancastro, salino, assetato. La gente lungo la strada vende angurie, meloni, pomodori, tra asfalto e terra bruciata. Sfruttano quel poco di terreno coltivabile tra le montagne rocciose e il Negev.

Convinco i ragazzi a cercare Sodoma e Gomorra, le due mitiche città dell'Antico Testamento distrutte da Dio, secondo i Testi Sacri, in una tempesta di fuoco. La guida indica i resti di Numeira e Bab Ad Dhra, le due fortificazioni dell'età del ferro incenerite in circostanze misteriose, come le due possibili Sodoma e Gomorra. I resti di petrolio e bitume, contenenti sacche di gas naturale, potrebbero essere la probabile causa di un incendio di vaste proporzioni, riconducibile al mitico racconto biblico.

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Ci fermiamo a domandare nei pressi della grotta di Lot. Secondo la Bibbia, quando Dio decise di distruggere Sodoma e Gomorra, due angeli vennero ad avvertire Lot, il quale fuggì con la moglie e le figlie; ma durante la fuga sua moglie, per aver contravvenuto all'ordine di non voltarsi a guardare, fu tramutata in una statua di sale. Lot si rifugiò invece presso queste montagne.

Non riusciamo a trovare Sodoma e Gomorra. Nessuno ha idea di dove siano i resti archeologici, neppure i beduini sanno aiutarci. Non c'è traccia di quanto descritto nella guida. Solo la statua della moglie di Lot, un pinnacolo di pietra naturale, svetta oltre le nostre teste, lungo la strada.

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I ragazzi mi prendono in giro, io sento quella fuga e quella distruzione biblica come una metafora di un vissuto personale. Ne sono vivamente affascinata. Così come la rilettura in chiave analitica di alcuni racconti mitici, che hanno condizionato la storia dell'umanità, mi incuriosisce e mi appassiona.

Ad Allenby lasciamo la macchina custodita in un parcheggio e ci dirigiamo in taxi verso il controllo passaporti, stipati fino all'inverosimile. Inizia il nostro Calvario: il complicato attraversamento della frontiera giordana, e poi quella palestinese.

Controllo bagagli, controllo passaporti, scansione dell'iride, consegna passaporti, pagamento degli oneri e poi fuori in attesa, abbandonati, al sole, sudati, stanchi, in un'aria densa, maleodorante, di un'umidità insopportabile. Alcune persone dormono buttate per terra, un bambino gioca tra il sudiciume di questo non-luogo, altri guardano in lontananza, cercando di scrutare il prossimo autobus in direzione Palestina. Questo non è un luogo di turisti. Non è neppure una frontiera vera e propria, perché la Giordania non riconosce il controllo israeliano dei confini palestinesi. È un posto ignorato da qualsiasi Dio, dove il tempo gioca a carte e si dimentica di te. Attendiamo oltre un'ora, poi, stretti tra il conducente e il cruscotto sudicio, Francesco ed io, e Marco seduto dietro insieme ad altri turisti, partiamo in direzione Palestina. Altro controllo passaporti poco più in là e poi scaricati, come bestiame, davanti alla lunga coda per il controllo dei passaporti da parte delle autorità israeliane. Lasciamo i bagagli, ci dirigiamo verso il primo check point. Passiamo stanchi, senza troppi intoppi. Venti metri più in là, altro controllo. Ci rilasciano il visto. Pochi metri ed altro controllo. Sembra non terminare più. Oltrepassiamo il tornello. Siamo in Palestina.
Ritiriamo i bagagli e cerchiamo un taxi collettivo.

Fuori, tra filo spinato e campi minati, il caos. Code per trovare un mezzo fino a Gerusalemme, bagagli sparsi e sole cocente. Un ragazzo ci sfreccia davanti a tutta velocità. Dietro di lui, un gruppo di ragazzi armati fino ai denti lo insegue di corsa. Ci fanno rientrare in fretta e furia dentro il terminal. Sembra un tentativo di attentato, sventato all'ultimo momento. È il panico, per un istante. Poi scopriamo trattarsi, in realtà, di un'esercitazione militare. E ci rimettiamo in fila, per un taxi.

Seduta in coda al pulmino, mi sento mancare, le ultime forze mi stanno abbandonando. Vorrei scivolare nel sonno ma ci fermano per un altro controllo passaporti e la tensione aumenta di nuovo. Sono stremata, confusa da tutti queste perquisizioni e dalla tensione che non cala mai. Mi chiedo quanto ne sia valsa la pena lasciare la Giordania, il deserto rosso di Wadi Rum, i beduini di Petra, il mare turchese di Aqaba per questo nervosismo e il costante sospetto di trovarsi tra terroristi o di essere considerati tali.

Vorrei tornare indietro, ma non si può. Come la moglie di Lot, non posso neppure voltarmi per osservare quello che sto lasciando alle spalle. Perché il deserto rosso di Wadi Rum, i beduini di Petra, le acque turchesi di Aqaba sono state tappe di un viaggio interiore molto più che geografico: il bisogno di voltare pagina, di esplorare altri territori oltre a quelli dolorosi, già conosciuti. Il confronto con l'altro è diventato il modo per prendere coscienza di essere diventata un'altra persona. Non soffro più di vertigini. Come direbbe Kundera: non sento più il desiderio di lanciarmi in un vuoto per niente metaforico.

Non mi è ancora del tutto chiaro, mentre socchiudo gli occhi, che aldilà di questa frontiera, ho lasciato una geografia di eventi ormai distanti. Ho davanti a me nuovi luoghi di gioia e di ristoro dell'anima.

Mi volto verso il finestrino e intravedo le meravigliose cupole dorate di Gerusalemme al tramonto. Non ho mai visto uno spettacolo così dirompente, di una città bruciata dal calar del sole.

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Nel luogo della morte e della resurrezione per antonomasia, dopo tanto tempo, finalmente mi sento rinascere.

Posted by Marina_Calypso 11:37 Archived in Jordan Comments (1)

Aqaba

Lontana da Petra, la discesa all'inferno

sunny 35 °C
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L'aria mi sembra si sia fermata da un pezzo mentre attraverso la strada che taglia in due le montagne rocciose, tra il deserto di Wadi Rum e la città di Aqaba, sul Mar Rosso. È una lenta discesa negli inferi questo viaggio verso sud, dove il caldo si fa sempre più opprimente e quell'Occidente benestante, che avevo quasi dimenticato, si fa di nuovo presente in una grottesca imitazione, fatta di hotel a cinque stelle e solari ad alta protezione per le poche pelli che questa civiltà consente di scoprire, in una vanità normalmente assente o fatta di gesti più intimi, privati e tesi. I turisti passeggiano sprezzanti nei confronti di tradizioni, sguardi indiscreti e consuetudini altrui calpestate, con l'opulenza ben in vista, parei sgargianti, occhiali da sole e cappelli di paglia.

Sento ancora più forte la nostalgia dei beduini. Ricordo Mahmud mentre mi tiene le palpebre strette fra le sue dita di polvere. Mi parla a un soffio dal viso, mentre le sue mani disegnano i miei occhi di nero. Mi dice che sarò beduina anch'io e non avrò bisogno di altro per proteggermi dal sole e dal vento. La polvere nera con la quale mi ha resa una donna della sua tribù mi proteggerà dalla sabbia del deserto, e il velo scuro con il quale mi accarezza il volto, terrà lontano il calore e gli sguardi del desiderio.

"Una donna ha più fascino quanto meno mostra di sé" mi dice. I beduini Fakir annuiscono. Quando hai visto troppo, tutto, scompare il desiderio, si brucia la passione e non rimane più nulla.
Così velata, gli sguardi circostanti sembrano aver dimenticato chi fossi fino a qualche istante prima. Mi ripensano, sembrano immaginarmi nuovamente, come se quei veli rimettessero tutto in discussione. Aldilà della reale fisicità, la vera gloria, l'indice della passione, è potersi immaginare di essere il prescelto, colui il quale potrà sollevare quell'involucro misterioso, e possedere infine ciò che gli altri non ricordano già più ma possono solo sognare.

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Ad Aqaba, l'immaginazione muore sotto i colpi di modernità ed emancipazione. Il trofeo non è più il desiderio sfrenato, il sogno carnale di immergersi in un qualcosa di unico e incondivisibile. Sono canottiere slabbrate che lasciano intravedere a più occhi una sensualità schiacciata da menefreghismo. Le dimensioni dei corpi si misurano col metro del confronto tra Oriente ed Occidente. I turisti rivendicano la civiltà. E io ricordo Yasser e il suo ghigno irriverente. Non ha nulla di cui preoccuparsi. Vive di albe, tramonti, deserto, animali e feste in una famiglia che conta circa cinquecento membri. "Oggi sono in ferie. Domani non so ancora cosa farò. La vita è troppo breve. Siamo noi a complicarcela ma lei è semplice. Smetti di pensare e goditi l'attimo". Ride. Tutti i beduini ridono, anche mentre si lanciano da una torre all'altra del Monastero, a una trentina di metri dal suolo, rischiando la vita.

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Penso a tutte le voglie e i bisogni indotti della nostra società, a questi bambini che, a pochi anni, già cavalcano i muli e la vita con una destrezza che nessuno mi insegnerà mai nella mia società. Passerò probabilmente tutta la mia esistenza a lavorare, arricchendo qualcun altro, e vistando Paesi per una manciata di giorni all'anno, sentendomi così la parte civile che può spendere soldi in vacanze, lussi, comodità. Forse mi andrà bene, se avrò fortuna non dovrò lottare troppo per sopravvivere. Ma è una roulette, una speranza. È l'illusione occidentale.

I beduini ridono. Forse dopo il tramonto ci sarà un barbecue nel paese vicino a Wadi Mousa. Si accenderanno candele attorno al Tesoro. Le stelle apriranno la ferita nella roccia del siq. Qualcuno canterà e suonerà. Vorrei esserci anch'io. Mi sembra di respirare la libertà. In quel momento, sono accaldata dalle ore trascorse a camminare su e giù per Petra, sporca, aggredita da pulci, spettinata, assetata, stanca. Eppure l'inferno ha il sapore dell'occidente. Il benessere è una prigione, la moneta di scambio con la quale vendiamo la nostra libertà. Avere tutto significa non avere più nulla perché per avere tutto, ci priviamo del tempo di vivere. Ci rimangono poche ore al giorno, pochi giorni al mese. Pochi saranno gli istanti per i quale sentirò che sarà valsa la pena di aver vissuto.

Non vorrei più tornare a casa.

Ad Aqaba il sole di mezzogiorno si riflette in un mare cristallino e terso.
Abbagliata, chiudo gli occhi e sogno.
Le grida in spiaggia si trasformano, evocando falò lontani e feste, nella notte senza luna, a Petra.

Sento nostalgia del deserto.
Di tutto ciò che non sono.
E di mani che mi dipingono di nero.

Posted by Marina_Calypso 10:29 Archived in Jordan Tagged petra araba Comments (2)

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